È il caso di riflettere sul caso?
La fascinazione e il timore che proviamo verso le cose insondabili, sono forse ciò che attiva il nostro interesse per il processo conoscitivo che seguirà. Il caso ha una componente esoterica e imperscrutabile che siamo spinti a cercare di interpretare.
Nei secoli, la mancanza di controllo che abbiamo avuto sulle eventualità casuali, le hanno addirittura rese parte integrante del concetto più comune di divinità.
I piani di dio appaiono chiari quando sono compresi nella nostra conoscenza, diversamente vengono comunque considerati validi ma imperscrutabili. Finché siamo intervenuti sulle cose naturali obbedendo a regole imposte da qualche moralità religiosa, il limite esisteva ed era imposto. Dopodiché, ogni precursore della scienza moderna poteva essere condannato per eresia. In tutti i modi, da quando i follower del profitto hanno superato quelli di qualsiasi divinità, i percorsi conoscitivi si sono completamente slegati da lacci e lacciuoli. In quest'ottica però, si è generata una conoscenza anarchica e svincolata da qualsiasi regola, se non la corsa all'arricchimento personale.
Per chiarire ulteriormente: i sistemi di valori imperfetti sono preferibili alla mancanza totale degli stessi, o a un "unico generatore simbolico di tutti i valori" (il profitto personale). Questo perché, al contrario di quanto molti pensino, l'assenza di norme non costituisce un impianto autoregolante, ma piuttosto una accelerazione certa verso la distruzione del sistema stesso. Grazie alle regole che ci diamo, prima di tutto conserviamo ciò che ci interessa. La nostra capacità di cambiarle (mantenendo come premessa il benessere sociale) e adattarci agli scenari nuovi che si producono, costituisce la miglior performance possibile di ogni società umana.
Il caso rimane lì, meraviglioso o terrificante, il suo potere incontenibile attraversa le epoche intatto... nonostante la nostra illusione di governarlo.
Anche la matematica, regina auto eletta del sapere, quando prova a discutere il caso, finisce per attorcigliarsi in un dedalo di opzioni infinite, e quanto più queste diventano complesse, tanto più appariranno poco risolutive.
Qui sta il paradosso: il caso rappresenta spesso qualcosa la cui conoscenza è inarrivabile (esoterica appunto), finché il sapere non è in grado di spiegarla. Quando ci riesce però, il caso non è più tale. Ciò avviene perché capire le ragioni che portano a una possibilità inaspettata, significa conoscerne le cause e gli effetti. Così si ha il potere di contenere le probabilità che gli eventi si avverino cercando di evitarli. O al contrario, se ne possono produrre artificialmente, quando questi saranno giudicati positivi.
Per le persone comuni, l'imprevisto viene considerato come un male inevitabile. La mancanza di gestione del caso affonda necessariamente le sue radici in una forma di scaramanzia atavica. In questo senso, il caso torna ad essere una divinità pagana, ogni qualvolta cioè agisca su di noi in maniera incontrollabile.
Quanto alla vita di tutti i giorni, l'unica strategia per non uscire di senno, pare sia quella di non pensare a ciò che sfugge al nostro controllo. La maggior parte delle persone è rassegnata alla ripetizione degli stessi eventi. Un'esistenza del genere appare noiosa, ma è ritenuta più sicura che avventurarsi nel mondo delle cose incerte. Ogni cosa procederà sulle medesime strade, quelle battute in precedenza da chiunque altro, finché disgrazia o morte non interverranno a sconvolgere la nostra routine. Abbiamo quindi, noi stessi, prodotto le premesse perché qualsiasi elemento nuovo nella nostra vita, risulti casuale. Un altro paradosso dunque, o almeno in parte, perché di certo l'illusione di una vita preordinata non ci libererà dall'influsso degli eventi inaspettati. Tutt'al più potrà limitarli, creandoci il miraggio di evitarli.
Semplicemente si sta nel mare della vita come mitili, costruendo piccoli gusci e cercando posizioni protette, prendendo cioè quello che arriva dalla corrente sporca, digerendolo male e producendo altri rifiuti. Rimane da considerare che nel bilancio interspecie, se non altro i mitili producono meno sporco di quello che filtrano.
Nelle parti di mondo più povere, gli esseri umani sembrano maggiormente governati dalla brutalità del caso. Nei paesi più ricchi, invece, ci si convince che questo non avvenga. Ciò è vero in parte, quantomeno finché si ha maggior successo sulle cose della natura e si cerca di ottenerne sempre di più con la tecnica.
Ma la prassi inevitabile che si presenta a noi con modalità randomiche, può essere considerata casuale?
La peggiore delle nostre inconvenienze è la morte, che spesso viene definita (ingenuamente) come un evento casuale. Inutile dire che non lo è, dal momento che ci raggiunge tutti e in maniera obbligatoria. Da notare però, che il modo con cui avviene la dipartita è considerato tanto più casuale, quanto più l'evento che ha causato il decesso sia funesto o colpisca una persona giovane.
La stazione orbitale di solito non va fuori rotta e il ponte non cade. Questo succede perché con la tecnica governiamo tutte le eventualità negative che possiamo.
La forza e la potenza dell'essere umano di oggi, si esprimono soprattutto attraverso il non agire, il contenere. Ciò implica innanzitutto una buona gestione delle accidentalità.
Quando il rischio è complesso ma gestibile, abbiamo delle possibilità di successo. Negli scacchi si vince dominando il caso, arginando cioè le possibilità avverse che potrebbero ostacolare il nostro prevalere. Se nel lasso di tempo che determina la partita, riusciremo a farlo, allora vinceremo. Se durante la nostra vita, i successi saranno sempre maggiori degli insuccessi, noi risulteremo dei campioni di tale disciplina.
A chi non ha ottenuto abbastanza controllo sui rischi della propria vita, non rimane che la delega. Ci si affida alla speranza che le disgrazie inaspettate vengano gestite da un ente supremo (il governo, dio, o il datore di lavoro). Nel loro patto scellerato, la religione e il potere hanno addestrato la gente comune a credere a questo: ogni ricompensa è rimandata (alla fine del mese o della vita). Qualunque gratifica sarà futura e proporzionale alle sofferenze patite. Per l'ingenuo, che queste siano casualità derivanti dal trattare male il proprio corpo, dall'ingerenza di dio, del governo o del datore di lavoro, fa poca differenza... è tutta colpa del caso. Si finisce per scomodarlo anche quando lo si è favorito negativamente. Ci racconteremo che in fin dei conti è colpa sua, mentre corriamo a comprare sigarette, medicine o biglietti della lotteria: cioè gli strumenti più poveri per governare il caso.
Dio è, prima che qualsiasi altra cosa, caso e capriccio. Egli può agire così perché ha tutta l'eternità, noi no. Ogni giorno mentiamo, tradiamo la fiducia degli altri, rubiamo e siamo scorretti. Tutto ciò per creare eventualità positive che sconfiggano quelle negative.
Intanto la tecnica, anche se marginalmente, lavora anche per la collettività. Prima quella parte più ricca poi, inevitabilmente e di solito a caro prezzo, anche quella più povera.
Sconfiggere dio con l'ausilio della tecnologia e trasmigrare in apparati tecnologici, significherà soprattutto abbattere l'eventualità di malattie e morte.
L'effetto terribile del tempo confligge inevitabilmente con le nostre speranze. Frantuma le illusioni di avere una vita infinita e non dolorosa.
Come qualsiasi altra cosa esistente, quelle organiche finiscono per marcire e disintegrarsi. Credere in qualche ruota mistico/ambientalista del riciclo cosmico non conforterà affatto il nostro ego.
In assenza di alternative, esistere a qualsiasi costo appare certamente l'opzione più valida da perseguire. La registrazione, man mano che si perfeziona, è il tentativo di trasmigrare da una realtà caduca a una più longeva. Abbiamo cominciato registrando ciò che si sentiva, poi vedeva, oggi lo facciamo con le modalità di ragionamento (algoritmi). I sensi si stanno trasferendo dentro le macchine e quando saranno tutti lì, compreso il modo che ognuno di noi ha di ragionare, il corpo diventerà una cosa superflua. L'anima si che sarebbe un problema, ma come già detto, in mancanza di alternative valide, le persone vanno tutte per la stessa strada e che cos'è questo? Se non un tentativo di sconfiggere dio?
Il gioco che si fa con tutto il corpo o lo sport, sono realtà virtuali che esistevano già prima di quelle attuali. Le casualità negative controllate, rimanevano contenute entro la fine della partita e nei limiti delle regole. L'effetto innocuo che produce oggi la realtà simulata dentro gli schermi è ancora più contenuto (non ci si può infortunare videogiocando) e viene studiato per apparire sempre più vero (iperrealismo). L'ambiente virtuale ci seduce e convince, perché è immune dagli accidenti reali.
Dentro ogni vita è contenuto il segreto della riproduzione, un sistema contenente le chiavi per la sopravvivenza che è incapsulato dentro uno che muore. Le realtà virtuali sono la stessa cosa. Un tentativo artificioso (e per ora fallimentare) dell'uomo per emanciparsi da ciò in cui esso è contenuto. Un apparato che lo vuole singolarmente morente per privilegiare l'esistenza del sistema stesso. Il tutto, tra l'altro, è basato sul concetto sorpassato della riproduzione indiscriminata. Dal momento che il contenitore (mondo) sarà colmo, qualcuno si renderà per forza conto che riprodursi all'infinito non è più una tecnica efficace per garantire la nostra esistenza.
Il primo vero brivido dei videogiochi è avere più vite dopo la morte, il godimento più adulto di ogni rappresentazione a schermo, è la conoscenza dettagliata di tutti gli aspetti finzionali. Non a caso, questi vengono largamente discussi, tanto dagli anziani davanti ai televisori, quanto dai nerd davanti ai computer.
È per questo che ognuno di noi preferisce la virtualità delle cose finte, per l'ovvia ragione che il rischio calcolato all'interno di un dramma simulato, ci dona il brivido dei pericoli lasciandoci indenni. Nel film guardiamo la violenza o la morte altrui, al sicuro e dal calduccio del nostro salotto. Nel videogioco addirittura insceniamo noi stessi violenza e morte, senza il rischio di farci male sul serio.
Trasferire le parzialità di noi dentro una macchina, in attesa che diventi totalità, governerà definitivamente le possibilità più pericolose di tutte: malattia e morte. Nella corsa alla sconfitta di queste eventualità, qualsiasi approssimazione fornita ci sembrerà accettabile.
Inoltre, quando le persone nuove della società, invece che morire e sopravvivere dentro un oggetto tecnologico, nasceranno già così, forse l'essere umano diventerà obsoleto.
Il prezzo dell'immortalità è la trasfigurazione. Il pegno da pagare per la semidivinità è la trasmigrazione digitale.
Oggi per dio e la natura noi siamo incubatrici organiche. Moriamo perché il seme che trasportiamo rimanga fresco e vivo. Appena abbiamo espletato il compito di duplicarci, cominciamo invariabilmente a deperire.
Assieme a ordinamenti di moralità vetusti come la religione, dio ormai è un concetto superato. Perché seguendo i suoi precetti, tutti i principi si riducono a uno: lo scopo ultimo della vita è generare altra vita in maniera caotica e indiscriminata.
L'individualità è solo una delle invenzioni umane e non la più gradita all'architetto supremo, è pericolosa e rischia di alterare gli equilibri del sistema.
La vita al di fuori della duplicazione incontrollata non è mai stata contemplata, semmai regolata grossolanamente dal caso e dall'eventualità certa di morire.
Oggi la nostra presenza determina più che altro inquinamento, siamo diventati un cancro che divora il pianeta (o almeno ci sta provando). In futuro, esistere in maniera sintetica potrebbe essere una scelta più longeva ed ecologica... e si sa, questa parola rende tutto più accettabile.
Nel nostro delirio antropocentrico, tutto il vuoto che abbiamo intorno (compreso l'universo) serviva soltanto a contenere noi, i prodotti e i rifiuti che generiamo in maniera infinita. Lo scopo della vita è sempre stato riempire ogni spazio fino al collasso, per poi ripartire da zero dopo una catastrofe casuale o indotta.
Sapere non significa più comprendere i nostri limiti in senso greco, muovendoci all'interno di essi rispettandoli, ma piuttosto studiare i confini della realtà per abbatterli e trascenderla. Questo ha determinato storicamente il passaggio alla scienza moderna e al governo della tecnica.
La natura del sapere, se inscritta in grandi sistemi caotici, è fuggevole. Invece all'interno di ciò che è (anche solo parzialmente) più piccolo e controllabile, la conoscenza di solito fa il suo dovere.
Rimane da considerare che se i paesaggi in cui ci si addentra sono densi di casualità, un sistema di regole dinamiche si rende necessario per poterli esplorare in sicurezza. La scienza dovrebbe tenere in considerazione soprattutto questo, per evitare incidenti che, quanto più essa avanzerà, tanto più potrebbero risultare pericolosi.