Un secondo prima
Capitolo 1
Una vita prima

Mentre la guardavo per l'ultima volta, pensavo che se fossi stato una stanza, sarebbe stata la mia cucina. Negli ultimi anni la mia casa si era ristretta ai suoi spazi essenziali. Certo, avevo anche altre stanze a disposizione, ma tutto quello che mi serviva era lì. Calda, pulita e disordinata, come un pezzo di musica jazz. Il resto della casa era il simulacro degli spazi che avrei potuto usare, se avessi vissuto meglio.
Niente figli e con le donne avevo chiuso da un pezzo, i cani li avevo lasciati perdere dopo aver raggiunto quell'età in cui non sai se vivrai più tu o loro. Per altro anche svegliarsi presto la mattina per portarli a spasso non era più, diciamo così, tra le mie priorità.
Dentro lo sgabuzzino avevo una capsula Soultech che ne occupava praticamente tutto il volume. Grigio metallizzata e blu, con una certa compostezza ipertecnologica e il suo design moderno, si sforzava di comunicare un'affabile tranquillità, ma a me sembrava solo quello che era, un sarcofago. Non aprivo mai la porta di quello stanzino e per diverso tempo il fatto di avere una mostruosità del genere in casa, mi causò non poco fastidio. Fino a quando, qualche anno prima, l'auto-eutanasia divenne socialmente accettata, per poi trasformarsi addirittura in una moda. Giovani particolarmente problematici, star fallite di youtube in cerca di un'ultima scintilla di vanagloria e infine la gente comune. Quando il governo obbligò tutte le persone anziane e sole ad averne una, l'acquistai e col tempo il mio fastidio dovette cedere il passo a una sobria rassegnazione. Avrei usato la capsula quando il dottore mi avesse diagnosticato una malattia qualsiasi da cui non sarei più potuto guarire, giusto poco prima di diventare un peso per me stesso o gli altri. La procedura era semplice e pulita, i soldi per la cremazione erano già compresi nel prezzo. Quando sarebbe stato il momento mi sarei sdraiato al suo interno e la mia vita sarebbe scivolata dolcemente verso l'oblio, o almeno così diceva la pubblicità. Al momento del decesso il personale della Soultech, che già aveva le chiavi di casa mia, sarebbe stato avvisato via e-mail per venire a prelevare il cadavere.
Stavo per dire addio alla mia casa quindi, il posto dove ogni tanto vagavano ancora felici, le anime delle donne che avevo amato. Stranamente però, tutto questo mi faceva sentire bene, forse un po' in colpa, ma in fondo ancora vivo.
A settant'anni trascorrevo la maggior parte delle mie giornate tra la cucina e il divano.
Uno stanzone unico diviso da un mezzo muretto, oltre al quale c'era il piccolo salotto che usai come tale, almeno fino a quando l'ultimo dei miei amici ebbe la forza di venire a farmi visita. I giovani non sapevano neanche più cosa volesse dire "andare a trovare qualcuno" e in ogni caso, dopo le prime piogge nere, anche io cominciai a uscire di meno e il salotto finì per diventare anche la mia camera da letto.
La cucina era il cuore caldo della mia casa, il piccolo tempio dei pochi piaceri rimasti. Il mio divano era un rifugio per i pensieri, nonché un santuario per solenni pisolini. La vita semplice dei vecchi soli è fatta di una specie di caos ordinato, libri letti a metà, una scacchiera con il quiz della settimana e un computer spento da molto tempo. Ah! e c'era anche quell'aggeggio che avevano tutti, la diavoleria che accende la luce, racconta le barzellette e ti dice cosa manca in frigo. Giaceva lì, in pezzi dietro al divano, l'avevo scaraventato contro il muro qualche anno prima.
Tenevo le medicine in cassetti dove non avrebbero dovuto essere, mischiate con vecchie fotografie che ogni tanto riguardavo. In quei momenti me ne stavo davanti allo specchio con un sorriso ebete, mentre i ricordi fluttuavano di fronte a me, nei giardini colorati del tempo. L'esercizio di richiamare alla memoria eventi come feste di compleanno, o nomi di vecchi amici, era malinconico e piacevole in egual misura. Oltre a questo, era anche un modo simpatico per testare quali parti del mio cervello fossero ancora vigili.
Avevo barattoli di conserve illegali fatte da me, una vecchia taser-gun mai usata sotto il cuscino e un mini proiettore per vedere qualche film, insomma, non me la passavo poi così male.
In ogni caso, se un giovane di quegli anni mi avesse fatto visita, avrebbe pensato di essere finito in un museo o peggio nella soffitta di una casa abbandonata.
Il mio mondo era tutto lì e quello che c'era fuori, m'interessava quanto mettere la testa in un nido d'api, tenendo presente che nessuno sapeva più che aspetto avessero quegli animali.


Capitolo 2
Un anno prima

La Terra aveva superato i quindici miliardi di abitanti ormai da tempo. Il trenta per cento delle terre emerse era sott'acqua. Il livello delle polveri sottili presenti nell'atmosfera era ormai altissimo, tanto che le città più grosse erano state evacuate. Le politiche ambientali, di green economy e infine addirittura di controllo demografico, avevano fallito. Inoltre, le nuove tecnologie edilizie sotterranee, o di bonifica dei terreni climaticamente più inospitali, non avevano dato buoni frutti.
Avevamo superato il tempo massimo per poter recuperare il pianeta. Entro l'anno si sarebbe verificato, quello che gli esperti definivano come il collasso meteorologico globale.
Alcuni super ricchi di ogni nazione avevano cominciato ad acquistare montagne, l'idea era quella di farle scavare all'interno. Avrebbero voluto far costruire delle enormi abitazioni residenziali sotterranee, blindate, isolate, con sistemi di areazione artificiali ed energeticamente indipendenti. Non ci si trasferirono mai e in ogni caso suppongo sapessero che, dato lo stato di degrado del pianeta, non sarebbe durata a lungo neanche per loro.
La forma più alta di presunzione umana fu quella di vivere per tanto tempo sull'orlo del disastro, pensando che non sarebbe mai arrivato. Finite le rivolte per il carburante, cominciarono quelle per l'acqua. Tutti i paesi entrarono in una feroce competizione per lo sfruttamento delle poche risorse energetiche rimaste, fino al punto in cui arrivammo a sfiorare un conflitto mondiale.
Queste premesse fecero sì che, dal duemiladuecento in poi, tutta l'esplorazione spaziale fu dedicata alla ricerca di un pianeta nuovo. Uno sforzo economico e tecnologico enorme, supportato da tutte le nazioni del mondo.
Dopo tanti anni, una vera sfida pacifica mise tutti i governi del mondo d'accordo. Se c'era rimasto un po' di buonsenso e talento negli esseri umani, era ora di tirarlo fuori e sfruttarlo per raggiungere questo obiettivo, trovare una nuova casa per tutti.


Capitolo 3
Un mese prima

Non ho bisogno di guardare delle foto per ricordarmene, fu un giovedì mattina. Stavo facendo colazione, il sintolatte e i corn flakes mi caddero di bocca, cominciai a frugare freneticamente il tavolo con le mani alla ricerca del telecomando. Quando alzai il volume del televisore ancora non ci potevo credere, la conduttrice stava dicendo che il nostro nuovo pianeta si chiamava Stenix 4, ed era pronto ad accoglierci. Guardai in strada, all'improvviso tutti gli schermi stavano mostrando le stesse immagini, scritte e colori, ovunque. Un telegiornale in ogni lingua andò in onda in tutto il mondo per quarantotto ore di seguito. Ce l'abbiamo fatta! l'abbiamo trovato! un mondo nuovo. Le sonde e i mini-rover avrebbero cominciato a inviare a breve i primi risultati. Dopo pochi giorni si seppe che Stenix 4 era quasi perfetto, aveva una stella che lo riscaldava, le sue giornate duravano venti ore e le sue caratteristiche sembravano del tutto simili a quelle della Terra. Animali differenti ma non troppo pericolosi, specie vegetali diverse ma in minima parte commestibili e per ulteriori conferme, molto presto un piccolo insediamento umano avrebbe cominciato a condurre studi più approfonditi.
Il sistema solare da raggiungere era molto lontano, ma un'altra grande scoperta scientifica ci diede ulteriore speranza. Una novità che avrebbe rivoluzionato i viaggi interplanetari. Il Giappone rese noto a tutti che grazie all'incredibile scoperta di uno studente, un'equipe di scienziati specializzati aveva potuto produrre e testare un nuovo tipo di sistema propulsivo. Sei mesi dopo, un team di ingegneri arrivati da tutti i paesi del mondo, annunciò il varo della prima astronave a reattori oscuri. Un gruppo di scienziati destinato a creare il primo insediamento sul nuovo pianeta, partì dopo poco.
Successivamente tutti i governi cominciarono a mettere in cantiere i cargo spaziali con la nuova tecnologia propulsiva. Al telegiornale dissero che sarebbe stato possibile raggiungere Stenix 4 in una sola settimana. L'esodo era ormai una realtà.


Capitolo 4
Una settimana prima

Tutta la popolazione mondiale avrebbe dovuto essere assistita, preparata ed equipaggiata per la partenza. La produzione ordinaria di altre merci, si fermò per cedere il passo a tutti i prodotti necessari all'esodo. La gente dovette imparare le procedure d'imbarco e di permanenza nello spazio, fu quindi ordinato a tutti di seguire dei corsi online, sui posti di lavoro, nelle scuole e in uffici creati appositamente. Negli ospedali, ampi spazi furono adibiti ad ambulatori per l'assistenza psicologica alle persone sole, o più spaventate.
A livello organizzativo, quindici miliardi di persone che lasciavano un pianeta, non era proprio uno scherzetto. La scoperta di una nuova casa diede però speranza, inoltre contribuì ad alleviare le tensioni tra le popolazioni di tutte le nazioni e le loro amministrazioni.
La campagna d'informazione visiva fu massiccia, per mesi su ogni schermo, ologramma aumentato o cartellone pubblicitario animato, tutte le immagini mostrarono con orgoglio ogni buona notizia che arrivava dal primo insediamento umano. C'era un collegamento costante con Stenix 4 in stile grande fratello. I ricercatori sorridenti mostravano il pollice alla telecamera o scherzavano tra di loro, venivano ripresi mentre facevano crescere piantine o, esplorando le foreste, spiando curiosi nuove specie animali da lontano.
In ogni città della Terra, ovunque ci fosse uno schermo qualsiasi, una piccola folla si radunava subito attorno ad esso per rimanerci incollata anche tutto il pomeriggio. Nelle scale del mio palazzo vedevo i volti sorridenti e stupiti degli inquilini. Tutti si affrettavano a togliere le maschere e le tute antinquinamento, prima di entrare in casa e riferire le buone notizie. Li sentivo discutere animatamente e sorridere attraverso i muri. Per la prima volta il tintinnare grigio e sordo della pioggia nera, veniva sovrastato dal suono delle risate della gente.
C'erano famiglie dietro quei muri, persone vive che si erano quasi dimenticate dell'idea di un'esistenza migliore, e io ero uno di loro.


Capitolo 5
Un giorno prima

Il penultimo giorno tornando dai corsi di preparazione, passai di fianco alla villa di un vicino, era un uomo molto ricco di cui sapevo poco, a parte che aveva una bella famiglia e credo lavorasse per la televisione. Lo avevo incrociato qualche volta ed era stato cordiale ma molto distaccato. Avevo lo scatolone con il kit per la partenza tra le mani e stavo rimuginando su quello che avrei dovuto lasciare a casa. Immaginavo che per chi avesse posseduto molte più cose di me, sarebbe stato tutto più difficile. Mi fermai e buttai un occhio oltre il cancello, in giardino non vidi nessuno, si erano già imbarcati, capii che ero in ritardo come al solito e aumentai il passo.
Arrivai a casa che era ormai sera e trovai il mio assistente sociale alla partenza ad attendermi, il ragazzo mi diede i miei nuovi documenti d'identità e la carta d'imbarco. Poi mi disse di sbrigarmi che non avevamo più tempo, saremmo partiti il mattino seguente. L'assistenza era impeccabile, gli uffici comunali avevano provveduto a formare questi assistenti, per aiutare le categorie più deboli e gli anziani, fare i bagagli, chiudere i conti bancari e formalità di questo genere. Nelle ultime settimane questo ragazzo mi era stato davvero d'aiuto, ed era una benedizione, dato che se avessi fatto tutto da solo, avrei di sicuro dimenticato qualcosa.
Tutto il sapere umano, i dati bancari e l'intero internet, erano stati salvati dentro degli enormi data center, i quali erano già stati imbarcati sui cargo.
Per questioni di spazio, queste astronavi vennero dotate di un sistema di guida automatico. Per la stessa ragione e a causa del poco tempo, non fu possibile costruire cuccette o alloggi, ma solo degli hangar interni. Questi enormi spazi erano però stati attrezzati come giardini, divisi per quadranti e quartieri, in questa maniera avremmo fatto il viaggio vicino a persone che già conoscevamo. Queste aree erano attrezzate ma bisognava adattarsi a stare tutti assieme, dormendo su brande o sacchi a pelo. Ci dissero che del personale di polizia avrebbe garantito la nostra sicurezza, ma il buonumore era talmente alto, che non ci sarebbero stati problemi in tal senso.
La mattina dopo, il mio assistente sociale alla partenza arrivò di buonora. Poco prima di uscire, alcuni vicini di casa che non avevo mai visto, vennero a chiedermi se avessi avuto bisogno di qualcosa, fui grato ma risposi che era tutto ok.


Capitolo 6
Un'ora prima

Era giunto il momento quindi, salutai la mia cucina e le conserve, sapendo che per un po' avrei rinunciato a qualche piacere. Quando l'assistente sociale alla partenza si offrì di portarmi la valigia, declinai gentilmente. Uscendo guardai sconsolato la maschera e la tuta antinquinamento, erano appese lì, sull'appendiabiti nel pianerottolo, come seppie di plastica morte. Le indossai più serenamente sapendo che sarebbe stata l'ultima volta, il mio assistente fece lo stesso. Mi accinsi a chiudere la porta di casa e incrociando lo sguardo del ragazzo, lo vidi accennare a un sorriso bonario, alzai le spalle, sorrisi anch'io e lasciai la porta aperta. Scesi le scale e uscii dal palazzo senza rimpianti.
Tre van da dodici posti attendevano sotto casa, il ragazzo mi diede un colpetto sulla spalla e disse — Le va bene se guido io? — . I miei vicini di casa erano già saliti, salutai tutti e mi sedetti nel posto di fianco al conducente. Ci togliemmo le maschere e partendo guardai il ragazzo da vicino per la prima volta, era giovane, sulla trentina, con le spalle robuste e gli occhi pieni di speranza. Insomma, era quel genere di persona che vorresti vicino quando t'imbarchi per la prima volta su un astronave.
Per non congestionare il traffico, tutti i quartieri erano stati scaglionati per la partenza con giorni e orari differenti ma rigidi, nell'arco di due settimane ogni città sarebbe stata evacuata.
Molti van, quasi tutti recuperati dalle compagnie di taxi, erano stati messi a disposizione della popolazione. In strada le persone si muovevano animatamente, sembravano caricare i loro bagagli con la fretta gioiosa di chi parte per le vacanze. Sull'altro lato della strada, un bambino veniva rimproverato da sua madre perché aveva provato a togliersi la maschera antinquinamento.
Improvvisamente la pioggia nera cominciò a scrosciare sui vetri, guardando lo spettacolo tetro della città che si tingeva di nero per l'ultima volta, ripensai con nostalgia al mio divano. Scacciai la tristezza e feci qualche domanda di cui già conoscevo la risposta al ragazzo, giusto per ammazzare il tempo, i vicini dietro chiacchieravano allegramente.


Capitolo 7
Un minuto prima

La vista dei cargo spaziali nei campi fuori città era impressionante. Dalla nostra distanza si vedevano solo dei plotoni di parallelepipedi grigi a perdita d'occhio, più in lontananza alcuni di questi si stavano già sollevando in aria. Quando arrivammo nei pressi del nostro cargo, notai delle piccole file di mezzi che si avvicinavano da tutti i lati, ogni cosa procedeva in maniera lenta ma ordinata e da quello che potevo vedere sullo smartphone, era così in ogni città. Abbandonammo il van e ci avvicinammo a piedi per metterci in coda dietro agli altri. Nell'attesa chiesi al mio assistente dov'erano i malati e i carcerati, mi rispose che c'erano delle aree apposite per ogni categoria, quelle dei carcerati però, erano off-limits. All'ingresso degli hangar il controllo fu una formalità, passai attraverso uno scanner con il mio biglietto in mano, una voce robotica mi augurò buon viaggio. Appena entrato vidi un mare sterminato di gente, una moltitudine di teste che generava un fragore oceanico. Il mio assistente si congedò, ma mi disse che sarebbe tornato a breve per controllare come stavo. Prima di andarsene mi diede una cartina che mostrava i punti di ristoro, le toilette e i terminali informativi, mi indicò il settore del mio quartiere, E-9. M'incamminai in mezzo alla gente, ero stordito dal vociare continuo e dalle grida stridule dei bambini. C'erano panchine, brande e sdraio ovunque, qualcuno stava già mangiando un panino o bevendo una bibita, tutti sorridevano e chiacchieravano animatamente. A quel punto, un'altra voce robotica proruppe dai megafoni, informò tutti di sedersi sul prato artificiale o sulle panchine, al che ci adagiammo per terra lentamente, come un gigantesco tappeto umano. Una ragazza si attardò correndo dietro al suo cagnolino e infine si sedette. Il vociare calò di volume fino a quando ci fu il silenzio. Un breve conto alla rovescia e poi una vibrazione, che si trasformò nel clangore lamentoso di un'enorme bestia metallica e poi in un rombo, potentissimo. Tutto tremò e sobbalzò per alcuni secondi, sentii qualche urlo e infine ci sollevammo pian piano, come su un cuscino di aria. Ci fu un lungo applauso, risate e molte lacrime, la gente si abbracciava e io pensavo alle turbolenze e ai viaggi in aeroplano. Una signora che piangeva mi abbracciò e poi mi prese le mani, le strinse forte e sorridendo come una bambina mi disse, "ce l'abbiamo fatta! Ce l'abbiamo fatta!".


Capitolo 8
Un secondo prima

Il mio assistente alla partenza mi venne incontro facendomi un cenno con la mano, era raggiante e aveva del rossetto sulla guancia. Mi chiese “tutto bene?”, risposi “si, nel trambusto degli ultimi giorni ho scordato di chiederle il suo nome, deve scusarmi”, lui sorrise gentilmente e mi disse “David”, poi ci stringemmo la mano come due bambini il primo giorno di scuola. Dopo qualche attimo di silenzio imbarazzato gli chiesi dov'era il bagno, lui me lo indicò pazientemente sulla cartina e poi con il dito, “è laggiù, lungo la parete dell'hangar”. Prima d'incamminarmi mi girai e gli chiesi “scusi la domanda assurda David, ma se un anziano come me dovesse morire durante il viaggio, quale sarebbe la procedura?” lui rispose “so che hanno imbarcato delle capsule Soultech per ogni evenienza, sono la soluzione più igienica, in quanto perfettamente isolate, potrebbero contenere i corpi fino all'arrivo, ma lei non ne avrà bisogno glielo assicuro”. Poi vedendo la mia espressione vacua aggiunse “se le interessa può vederle, c'è una paratia che copre una feritoia, proprio di fianco alla porta dei bagni, ma ci vuole una chiave a codice per aprirla” al che avvicinandosi mi sussurrò “tenga usi la mia, ma mi raccomando me la riporti subito” mi fece l'occhiolino e aggiunse “l'aspetto qui”. Presi la chiave annuendo e mi avviai verso i bagni, ci vollero dieci minuti buoni per arrivarci, a metà dei quali la solita voce robotica avvisò dai megafoni che eravamo fuori dall'orbita terrestre. Ancora applausi e urla di gioia, il tappo di una bottiglia di spumante per poco non mi arrivò in testa.
Poco prima di entrare in bagno vidi la feritoia coperta, mi ci misi di fronte incuriosito e cercando di non dare troppo nell'occhio. Appoggiai la chiave sul quadrante e premetti il pulsante, quando la feritoia si alzò di scatto mi avvicinai al vetro. Vidi uno spazio immenso e scuro, un doppio fondo molto ampio che correva lungo tutta la parete dell'hangar. All'interno di questo, in altezza e larghezza, c'erano centinaia di migliaia di capsule Soultech, erano tutte impilate in maniera ordinata e si estendevano a perdita d'occhio. Mi girai terrorizzato, proprio un secondo prima di capire, che tra tutta la gente dietro di me e quella che avevo visto fino a quel momento, non c'erano altro che poveri.

Finito di scrivere il 11/12/2019

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