Lettera aperta al Professor Umberto Galimberti


Da povero profano e ignorante delle cose filosofiche, ma da amante del filosofare da osteria, includo qui di seguito alcuni miei dubbi e dissensi, rispetto a certi argomenti da Lei trattati negli anni, Professor Galimberti.
Premettendo ch'egli è stato (come scrittore e divulgatore) il principale responsabile del mio innamoramento per questa disciplina, oltre che ancora oggi, il primo e uno dei più interessanti filosofi che io abbia mai letto.
Era giusto quindi che la farina di questo mio piccolo sacco rimanesse confinata? Prima che potessi trasformarla in pagnotta o che i vermi del dubbio avessero a farne scempio?
Non lo so...
Scrivere è per me un'esigenza personale, quindi se reputasse degno perder tempo e tentar la traversata, si ritenga avvisato dapprincipio, che come sempre sarà difficile stabilir chi sia stato più fortunato, se il mare o il marinaio.

En tierra de ciegos el tuerto es rey
Proverbio messicano


"L'uomo è il funzionario delle tecnica"

Credo ci sia qualcosa d'impreciso in questo pensiero (che beninteso trae le sue premesse dalle riflessioni di Gunter Anders Stern). Vero è che l'uomo si sente il funzionario delle tecnica, ma non penso che la tecnica sia divenuta il soggetto della storia. Se per soggetto intendiamo sempre colui che agisce, l'uomo di oggi, pur avendo perso gran parte dei propri valori e della propria spiritualità, è ancora l'attore principale della storia.
L'uomo come soggetto-agente, produce la storia e di conseguenza anche la tecnica, che di per se non è quindi soggetto attivo, perché essa non esiste autonomamente nel mondo, se non nelle rappresentazioni teoriche e nelle realizzazioni pratiche che l'uomo produce di essa.
Trovo inoltre che questo soffiar vita dentro concetti inerti fino ad animarli, sia un modo di procedere molto pericoloso, si rischia di produrre dei golem da conferenza, che finiscono per parlare al nostro posto e sostituire la nostra capacità di dialogo e ragionamento creativo, fino ad estinguerla.
Quando invece, com'è molto più probabile, queste siano riflessioni provocatorie nate con l'intento di eccitare i neuroni dell'ascoltatore, dobbiamo stare in guardia come l'amico che racconta sempre le stesse barzellette, invariabilmente dopo che ne ha raccontate per anni, cominciano tutti a credere che abbia poca fantasia.


"L'economia per decidere i suoi investimenti guarda le risorse tecnologiche".

Prima dell'avvento di qualsiasi forma di valuta, l'economia (storicamente intesa come l'organizzazione dell'utilizzo di risorse, attuata al fine di soddisfare al meglio bisogni individuali o collettivi) finché era fatta di gruppi di uomini (più o meno) uguali, ha sempre guardato principalmente alle risorse territoriali, poi allo sfruttamento di altri esseri (prima animali e poi umani) e in fine, solo più di recente, alle risorse tecnologiche, ma sempre destinandole innanzitutto alle due tipologie di sfruttamento di cui sopra.
Con l'introduzione del denaro, piccoli gruppi di uomini cominciarono a governare le sorti delle comunità umane. La manodopera si otteneva soprattutto deportando gli schiavi, procedura sin dagli inizi molto rischiosa, il cui rapporto costi e ricavi, cominciò a vacillare ulteriormente con l'avvento della agricoltura industriale.
La favoletta secondo cui la fine della schiavitù è un altro dei grandi traguardi democratici per cui dobbiamo ringraziare gli Stati Uniti, è buona per chi guarda troppa televisione.
La dicotomia forzata tra gruppi che si produce con le classi sociali, genera schiavi autoctoni, meno dispendiosi (grazie al miraggio dell'ottenimento di uno status sociale più alto) e più facilmente assoggettabili.
Per un po' borghesi e proletari si controllano e si combattono a vicenda, il sistema sembra perfetto, al tavolo da gioco sono tutti presi, ognuno pensa che la competizione sia all'insegna della democrazia (anzi del liberismo, perché pare che le due parole ormai si equivalgano) senza però tener conto del mazziere e del proprietario del casinò, credendo cioè, che questi due siano dei semplici vicari, in un apparato che si regola da solo.
L'esempio che spiega meglio la truffa in atto è proprio il poker, il gioco da casinò per eccellenza, in cui tutti pensano di avere le stesse chance, ma se un ricco ha carte peggiori di quelle di un povero ed ha più soldi per puntare, finisce che vince e si prende il piatto comunque. L'amaro in bocca rimane a chi sapeva di aver vinto, ma non ha avuto i soldi per poter "vedere" la mano, cioè rendere pubblica la verità. Altro fatto curioso è dato dalla ritualità scaramantica con cui tutti i giocatori rifiutano l'evidenza, anche quando il perdente avvilito gira le carte mostrandole agli altri, se non altro per cercare conforto. In questo caso si usa dire "per vedere si paga", ed i giocatori intorno al malcapitato distolgono addirittura lo sguardo, come di fronte ad una maledizione. Il loro diniego vuole significare che nulla di quello che non è stato pagato, verrà mai considerato come facente parte delle cose che esistono. Naturalmente qualcuno obietterebbe che si tratta di un gioco, ma quando questo tipo di mercificazione dell'esistente si allarga fino a comprendere qualsiasi attività umana che succede? Si ha la società attuale, quella in cui qualsiasi ragionamento al di fuori del calcolo, viene considerato superfluo, perché ognuno di noi è fermamente convinto che sia proprio il calcolo a produrre il denaro e il denaro a produrre tutto ciò che esiste.
Ho un aneddoto interessante su questo argomento, tempo fa lessi il blog di uno di questi signori che si fanno chiamare debunker, l'autore sosteneva che la risposta definitiva alla domanda "se siamo stati sulla Luna, come mai non ci torniamo così spesso?" Fosse "Perché non ci sono i soldi". Mi ha fatto sorridere ma anche riflettere, il fatto che la mente di alcuni individui sia talmente offuscata, da pensare che anche un viaggio spaziale sia una questione di denaro.

Questa dispercezione della realtà, non considerata come frutto della natura e poi del lavoro fisico, ma intesa come insieme di oggetti utili, magicamente prodotti dall'esoterismo monetario, è proprio il nodo gordiano attorno al quale la condizione umana sta collassando.

Dopo la fine della schiavitù, la differenza fu semplicemente che da quasi gratis, si passò ad avere una manodopera a bassissimo costo, ma l'abitudine colonialista di adoperarsi per creare (o mantenere le già esistenti) sacche di povertà da cui poter attingere, con la modernità non è certo andata scomparendo, si è solo nazionalizzata per poi trasformarsi in autodeportazione verso il lavoro.
Il problema è che, seppur molto lentamente, i poveri finiscono sempre per diventare borghesi, allora si torna a cercare fuori dai confini la materia prima, l'unico vero generatore reale e "non simbolico" di valore, cioè il lavoro fisico.
L'immigrazione attuale (che molti confondono con le migrazioni umane di età preistorica) non ha alcuna premessa naturale, ma solo strategiche, il capitale cerca continuamente di attirare a se e verso le città, proprio quella stessa forza lavoro che gli serve per produrre la ricchezza di pochi.
Visto sotto questo punto di vista, l'urbanesimo stesso è un fenomeno che ha molto poco a che vedere con quello descritto nei libri di storia o sociologia urbana.
In periodi più recenti, le risorse tecnologiche utili allo sfruttamento dei più poveri, si è provveduto ad installarle direttamente in loco, ed è così che è andata fino a poco tempo fa.
La situazione odierna, considerata sotto il profilo della crisi, è determinata dalla fine di queste modalità d'approvvigionamento della forza lavoro. L'uomo, anche quando non è impoverito fino alla fame, non ha più sapere nelle mani, non sa più governare le bestie o coltivare la terra, non è più in grado cioè di interpretare i segnali dell'habitat naturale (lo stesso che ancora caratterizza la maggior parte del pianeta in cui egli vive). Privato della propria dignità in quanto non autosufficiente, egli va perdendosi in giro per il mondo, diventando uno schiavo senza padrone. Queste grandi masse di persone, finiscono spesso per autdeportarsi da sole. Tutti alla ricerca di quel lavoro subordinato, attraverso cui acquistare il cibo e i beni superflui che li faranno sentire uguali tra gli uguali.
Le modalità con cui si spostano i grandi flussi migratori odierni1, non sono un fatto antico (come piace pensare ai radical chic) ma storicamente recente, il cui unico merito è quello di portare definitivamente a galla una guerra le cui sorti sono già segnate da anni, quella tra capitalismo2 e politica2. Dopo essersi sbarazzato della religione avendone cioè assunto i connotati, il capitalismo intende oggi eliminare anche gli ultimi residui dello stato sociale.



“Si dovrebbe essere degli esperti di Fisica per poter discernere meglio sulle
 implicazioni dell'utilizzo dell'energia atomica”

Diciamo che in linea teorica questo principio è giusto, ad un esame più attento però risulta retorica. Non si deve esser andrologi per poter usare un preservativo, ne tuffatori esperti per capire qual è l'altezza media di un tuffo per una persona non allenata, possiamo dedurre che proteggersi ed essere cauti sono due abitudini sane.
Argomenterei inoltre che se c'è un guasto in una centrale idroelettrica, una pala eolica o un pannello solare, i danni che ne derivano, non sono neanche lontanamente paragonabili a quelli che già abbiamo visto succedere in ambito centrali atomiche.
Statisticamente ci sono meno guasti alle centrali atomiche che in quelle idroelettriche? Beh è vero, ma la statistica diventa inutile se il male è evitabile.
Qualcuno obietterebbe ancora che ormai i consumi sono questi e non si possono diminuire, ma è una logica da fumatori di sigarette, gli stessi che confondono la libertà di consumo con la libertà in senso lato, ed è precisamente questo il primo sintomo della tossicodipendenza che ha contagiato l'umanità intera, nonché il problema principale da cui si generano il sovraconsumo d'energia e l'inquinamento.
La mia conclusione è che il pericolo derivante dall'utilizzo dell'energia atomica, è ben rappresentato dalla formula superproduzione + superenergia = superpericolo. Più semplicemente potrei concludere così: se si rimarrà convinti di non poter far altro che crescere esponenzialmente, il pericolo che deriverà dalla sovrapproduzione d'energia non farà che aumentare.


"Le macchine esprimono un'intelligenza oggettiva che supera l'intelligenza soggettiva di ciascuno di noi"

Paragone azzardato, seppure il concetto sia molto affascinante, anche su questo pensiero ho qualche dubbio. Prima di tutto perché l'intelligenza aiuta ciò che è vivo a sopravvivere, interpretando i segnali dell'habitat in cui si trova e avendo poi capacità di adattarsi o modificare lo stesso. La nostra intelligenza quindi è superiore a quella delle macchine, perché noi le usiamo coscientemente proprio per questo scopo e non viceversa. Tra i problemi che si sono generati, vi è semmai l'inquinamento che deriva dalla logica distorta con cui queste vengono costruite, oltre al numero enorme di esse che è determinato ancora dall'allucinazione collettiva di una crescita esponenziale e obbligatoria. Sono questi i principali fattori che hanno determinato una variazione – per usare un eufemismo – qualitativamente significativa del nostro paesaggio.
Stiamo però attenti a non soffiare di nuovo vita dentro gli oggetti inerti, le macchine moderne non esprimono nulla, sono contenitori di dati e programmi. Al loro livello massimo di sviluppo, possono controllare le funzioni di apparati tecnologico/meccanici semoventi e complessi, che sono in ultima analisi, quasi sempre progettati da noi per la produzione industriale, la guerra o il consumo indiscriminato, ma che necessitano comunque di un guardiano umano (lo stesso che si sente il loro custode, perché non ha più il coraggio di emanciparsi da loro).
Le macchine non hanno capacità adattive, non si migliorano da sole, non esprimono spontaneità o creatività se non quella limitata e simulata per cui sono state programmate. Certo, il delegar sempre di più a loro alcune funzionalità importanti del nostro cervello, quali il calcolo o la memoria, ci sta indebolendo parecchio, ma questa nostra debolezza non le sta rafforzando di certo, dato che senza di noi, esse non possono funzionare e per di più non si riproducono ancora da sole.
Mentre si muore, intorno a noi proto-estinti, sembra tutto più vivo e vigoroso, ma non ci si confonda, la nostra debolezza non è la forza altrui. Questa formula, nella maggior parte dei casi, è vera solo tra esseri viventi.


"Oggi la natura è diventata in ogni suo aspetto manipolabile"

Quella di poter manipolare la natura è un'illusione comune, chi distrugge pensa sempre di possedere, l'egocentrico che devasta casa propria è convinto di aver eliminato l'universo intero, ma non è così.
Sicuramente il sistema vita su questo pianeta si è ammalato del virus umano, ma ha visto cose ben peggiori e più spaventose; il fatto stesso che esso resista su una roccia coperta d'acqua e sospesa nel nulla, dovrebbe essere già di per sé un'ottima garanzia, se poi dovessimo sentirci troppo spiazzati, non rimarrebbe che riconsiderare l'idea di omoni barbuti tra le nuvole.
L'uomo occupa una percentuale ancora molto piccola del pianeta (alla faccia della tecnica) e non bisogna ingannarsi pensando che la distruzione dell'habitat e di conseguenza (probabilmente) del genere umano, corrisponderebbe necessariamente alla distruzione del sistema vita.
Pur ammettendo esista l'opzione remota che la natura diventi realmente manipolabile, lo sarebbe come lo è un coltello e scegliere da che parte prenderlo, richiederebbe quel minimo di saggezza che occorre a chi non vuol farsi del male da solo.
Riguardo alla grecità che la vede tanto nostalgico, posso capirla Professore, ma risulta chiaro che dopo aver osservato tanto, nel corso della storia, sia diventata una tentazione forte per l'essere umano provare ad usare quello stesso coltello, se non altro per capire gli orizzonti dello strumento. Mi sento però di ripetere che bisognerebbe conoscere i limiti della propria mano, prima di quelli dell'attrezzo scelto.


"La scienza e la religione hanno le stesse motivazioni di fondo"

Lei lo sostiene e le mette a confronto, in particolare il presente, che viene da Lei indicato come presente di redenzione per la religione cristiana e di ricerca per la scienza. A me questi sembrano paragoni un po' forzati. Direi che la ricerca scientifica nel presente, non è una ricerca di redenzione per gli errori passati, gli scienziati sono (di solito) troppo presuntuosi per redimersi di propria volontà, tutt’al più si sbugiardano l'un l'altro, il che è già un passo avanti, rispetto a quello di cui riescono a tacere i ministri di dio.
Paragone non accettabile anche quello tra futuro-salvezza nella religione e per il futuro-progresso per la scienza. Il cosiddetto progresso scientifico si intenderebbe fatto dai vivi per i vivi (del presente o del futuro) il futuro di salvezza cristiano invece, è fatto dai penitenti (cioè i morti in terra) e si intende definitivo solo dopo la morte (cioè i morti in cielo).
In ultima analisi, l'unico ingrediente in comune che vedo tra le due discipline (a parte la solita tracotanza umana) è forse lo sfruttamento di entrambe da parte di piccoli gruppi di uomini, per modificare gli umori morali e gli assetti economici dei gruppi di persone più numerosi.

Conclusioni
L'unica critica personale che mi sento di muoverle professore (a Lei, come per altro alla maggior parte dei filosofi nati nella modernità) è quella di non fare più politica, volendo dare a questa parola il senso di: dar significato alle parole con azioni che determinino il nostro muoverci in mezzo agli altri.
Mi rendo conto che molta parte dei suoi coscritti avrà fatto indigestione di quella politica troppo parlata e mal o poco agita; ma l'alternativa non è riempire di significato i concetti fino a dargli vita propria. Le cose dette e ragionate, rischiano di diventare palloncini che allontanano il filosofo dalla comunità che ha bisogno di lui.
Certo è, che continuare ad avere idee più vicine alla terra significherebbe correre qualche pericolo in più, rendersi più vulnerabili alle critiche, rischiare di rimangiarsi quanto si è detto e tenere conferenze meno rodate, ma più che qualsiasi altra cosa, agire appunto (Bertrand Russell docet).
Quello che mi duole di più però (proprio perché va a ledere quell'amore per la filosofia di cui ho scritto all'inizio) è sentirla ripetere così spesso che le idee migliori le ha avute prima dei trent'anni.
Beh che dire! Io tifo ancora per lei professore, per la sua visione nostalgica della grecità, per il suo nichilismo fascinoso e granitico, per quel castello trasparente fatto di ingranaggi meravigliosi e complessi che è il suo cervello.
Spero solo che si/ci concederà di avere qualche idea nuova, non sembra un obbiettivo poi così irraggiungibile per un filosofo della sua caratura. Lo faccia per amor del pensiero e della creatività, sono forse queste le due caratteristiche più squisitamente umane, che avvicinano ancora qualche ventenne incauto all'amore per il sapere.

note.
1. Che gli immigrati siano tutti poveri è un mito della propaganda mediatica, l'ottanta per cento dell'immigrazione legata al lavoro odierno, nel mondo occidentale, avviene per via aerea o ferroviaria e con disponibilità di mezzi, basti pensare ai cinesi.
Seppure alla condizione d'immigrato si accompagni spesso la povertà, il profugo che muore di fame e l'immigrato in cerca di lavoro, non sono sempre la stessa persona, anche se a un certo tipo d'informazione piace far pensare il contrario.
Due tratti comuni a tutti gli schiavi moderni, sono le cose da cui non siamo più in grado di emanciparci tutti (immigrati e non) e cioè:
Il potere, che è ormai tecnologicamente troppo preparato rispetto alla gente comune.
Il lavoro subordinato, perché non essendo più in grado di provvedere a noi stessi sfruttando l'habitat naturale che ancora ci ospita, diventiamo completamente assoggettati al lavoro subordinato.

2. Sempre intesi come gruppi di persone ben identificabili.


Un saluto cordiale
Paolo Alberto Reale

Finito di scrivere nel giugno 2015

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